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Cibele: la cucina delle immagini

Intervista a Davide Dutto, fotografo

Foto di Davide Dutto
Intervista di Manuela Maiocco

“Avevo pochi anni quando, seduto sul cavallino del barbiere Fatizza in via Roma, guardavo con il timore dei piccoli le gradi mani impugnare le forbici che mi tagliavano i primi riccioli. Davanti lo specchio. Tutt’intorno mille oggetti del mestiere: i profumi nelle ampolle con la pompetta arancione, i vari pettini neri e avorio, la striscia di cuoio dove passava su e giù la lama per la barba, i grandi lavandini con i rubinetti in ottone cromato. Quando avevi la testa infilata dentro l’acqua era sempre o troppo calda o troppo fredda. I vari poster con facce ben pettinate e qualche calendario di donnine…, le poltrone di finta pelle appicicosa in estate sulle gambe con i pantaloncini corti. Però ciò che attirava di più la mia attenzione era il gioco di riflessione dei due enormi specchi appesi alle pareti. Uno di fronte all’altro. Proiettavano le persone, moltiplicando all’infinito ogni cosa che passava in mezzo. Mi stupivo, ne venivo inghiottito. Così scorreva veloce il tempo dal barbiere. Discorsi da grandi, puzza di fumo e dopobarba, capelli a terra che qualcuno dei clienti regolarmente scopava via.
Così i miei capelli crescevano e tornavo a farmeli tagliare anche per rivedere il gioco degli specchi.
L’immagine: inconsciamente penso di averla scoperta dal barbiere. Da lì il passo alla scoperta della  fotografia qualche anno dopo è stato facile.”

Così si presenta Davide Dutto su una panchina assolata ai piedi delle quattro imponenti torri del castello di una piccola città di provincia del basso Piemonte. Editore e Fotografo. Fotografo ed Editore. Forse le due cose si confondono e trovare il confine tra parlare di lui o della sua casa editrice è molto difficile.
Tutta l’intervista è corsa via così, nel mezzo di due realtà: fotografare e fare libri. Osservare  con l’occhio professionale del fotografo e fare l’esperienza sul campo . “Sono stato in carcere” mi dice. “Interessante” penso ” gli chiederò certo perché”. Continua “…e in cucina. Mi piace  scoprire sempre cosa c’è dietro alle sale e ai piatti dei ristoranti. Quando entro la prima cosa che faccio è individuare la porta che ondeggia dove camerieri scivolano via con i piatti pieni e vuoti, i cuochi scrutano il lavoro di sala e i clienti. Lo sguardo passa attraverso la porta per rubare fotogrammi del lavoro dietro le quinte. Quello è il confine che divide il fare e l’apparire. In cucina c’è il fare, in sala l’apparire. A me piace cercare il fare.”

Andiamo con ordine. Una cosa è il carcere una cosa è la cucina di un ristorante. Che cosa hai fatto in carcere?

Si, sono due cose diverse, ma non del tutto. In fondo ognuno di noi si crea il suo piccolo carcere, la sua schiavitù. Io sono libero di essere prigioniero della mia passione, libero di sacrificare per la mia espressione, per il mio lavoro. Le persone di cucina mi assomigliano e poi ci sono i prigionieri veri, quelli delle carceri, che cucinano. Sono stato tre anni in carcere… Ho realizzato un volume fotografico e un ricettario, “Il gambero Nero” con la casa editrice Derive e Approdi, per raccontare la vita quotidiana dei detenuti. Le immagini parlano di sopravvivenza. Nel luogo della privazione della libertà e dei sensi, come quello carcerario, cucinare il cibo è per i detenuti un momento per affermare la propria esistenza, un modo per dire “io esisto” e conto e voglio essere, quindi faccio, cucinino. Nel quotidiano di un detenuto la preparazione del cibo, la sua condivisione e la continua reinvenzione di ricette fatte con ingredienti e strumenti occasionali, diventano anche un modo per ricordare gli affetti, trasmettere agli altri una conoscenza pratica, condividere una frazione di piacere. In carcere quando si cucina si sopravvive. Ho trascorso tre anni nel carcere di Fossano, insegnando ai detenuti fotografia. Sono entrato nelle celle e ho ascoltato, osservato e cucinato e cenato con loro.

Tra le molte cucine di ristoranti che hai visto mi racconti tre luoghi speciali? Persone, luoghi, odori, colori, sapori.

Scelgo tre luoghi Siciliani, tre cucine dai caratteri straripanti. La Sicilia è per me una miniera a cielo aperto, dove le persone sono protagoniste ancor più dei paesaggi mozzafiato. Là nel Ragusano ho realizzato il primo libro di Cibele, la casa editrice su cui sto investendo tempo ed energie, insieme ad altri soci. Come autore volevo un luogo, una casa, una cucina delle immagini, in cui gli autori e gli editori sono sullo stesso piano, con le mani nello stesso piatto e che la qualità artistica non fosse sottomessa alle logiche del mercato, ogni esperienza editoriale fosse la scoperta di persone, luoghi, cibi, saperi. La scoperta del fare.

In Sicilia mi hanno sfamato molte persone. Cito tre grandi cuochi in ordine sparso.

Pino Cuttaia, del Ristorante la Madia a Licata. La sua cucina è quella degli affetti, il blu è il colore come quello del mare e del cielo di Licata. È la cucina delle scelte fatte per amore verso sua moglie e i suoi splendidi figli, in ogni suo piatto puoi sentirne il gusto.

La cucina di Corrado Assenza è poetica e scientifica. Il bianco è il suo colore come il colore dello zucchero, della farina, della sua barba, delle nuvole sopra il duomo di Noto. Il vento, spesso lo scirocco, trasporta nelle calde notti estive di Noto i profumi delle sue alchimie, che si sprigionano dal suo laboratorio sotterraneo e anche dai suoi sacchi della “munnizza”. La “Munnizza” più profumata al mondo. Nelle sue mani la sensibilità, nei suoi gesti la poesia, nel suo cibo il nutrimento dell’anima.

La cucina di Ciccio Sultano, chef del Ristorante Duomo a Ragusa Ibla, è come lui: magmatica, in continua ebollizione, istintiva. Parla con parole siciliane, non ne capisco le frasi ma ne capisco bene il contenuto. Ciccio si esprime talmente bene in Siciliano che anche un’americano o un russo o un giapponese ed anch’io, ospiti nel suo locale,  possiamo ben capirlo. I suoi piatti e abbinamenti sono alla base di una tradizione che vede il carretto siciliano esplodere, per farne ricadere i pezzi dentro i piatti, come le mie immagini i suoi piatti raccontano storie e sentimenti in una lingua che non deve mai essere tradotta. La sua cucina è gialla come l’olio, come le piastrelle che la circondano, come il forte sole primaverile in Sicilia, quasi Africa. Con lui ho realizzato il volume fotografico IBLEIDE, storie di uomini e olio.

Qual è la ricetta del tuo lavoro di editore e di fotografo?

L’indipendenza, il coinvolgimento, la contaminazione, fanno parte della “cucina fotografica”.
Per realizzare il primo libro gli ingredienti sono stati: un produttore eccellente di olio, prima ancora amico, Lorenzo Piccione di Pianogrillo, che con me ha realizzato il libro e investito nella casa editrice Cibele.
La terra di Sicilia con le sue persone, colori, odori, mani, reti, scale…
Quello che il libro racconta è un’evento, che si ripete uguale da centinaia di anni. Quasi un rito in cui si svelano situazioni. Sono arrivato in Sicilia e salito sui “saraceni”, secolari ulivi dei Monti Iblei, per vedere da quella prospettiva la gente. Ho mangiato sotto gli alberi con i raccoglitorie, respirato lo scirocco, ascoltato il rumore delle mani che strappano foglie e olive, sono entrato nei frantoi come in una grande insalata. Il profumo di olio si sente dappertutto. Sono ridisceso dopo alcuni giorni ed è cominciato il lavoro di post produzione.

testo finale del lavoro fotografico nel libro

“Giallo infine è il colore che rimane impresso sulla carta, il colore della luce, il colore dei frutti, il colore dei profumi che anticipano un altro inverno che verrà qui in Sicilia. Giallo extravergine è il colore che fuoriesce da questa terra dai forti contrasti e dai toni saturi. Terra alzata dai venti e bruciata dal sole, terra dove uomini e donne da sempre lavorano a mani nude, trasformando il paesaggio e trasformati dagli elementi. Resistono alla modernità ancora un poco. Mentre scatto fotografie sotto piante secolari, all’interno dei frantoi, nei campi di terra scura sento parole siciliane non tradotte scherzare, imprecare, impartire ordini. Poi nei lunghi silenzi rimane solo il suono delle foglie spostate dai rastrelli, delle mani e delle olive cadere a terra. Così le giornate finiscono, i ritmi quasi rallentano e di nuovo il colore del cielo diventa giallo,
poi rosso e infine nero.” (Davide Dutto)

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