Sono sicuramente un fotografo, me lo sento dentro fino a che respiro fotografo, ma ora mi chiedono di spiegare in breve la mia esperienza in carcere… si di scriverne e qui lascio il mio territorio sicuro e conosciuto delle immagini e provo ad entrare in quello dei testi, dello scritto e cerco di raccontare con parole…vediamo ci provo, perdonatemi in anticipo.
“Ho passato tre anni in carcere…(pausa)” subito l’espressione dell’interlocutore cambia, lo sguardo diventa imbarazzato e un po’ nervoso, poi “…si beh ho insegnato fotografia ai detenuti per tre anni nel carcere di Fossano…” e la faccia si fa più rilassata e incuriosita e poi le domande e la voglia di sapere della vita all’interno di un casa di reclusione. “Quale reato hanno commesso per essere lì e quanti anni devono scontare, quanti vivono per cella?…è vero che esiste una gerarchia tra i detenuti?…insomma le solite domante di curiosità superficiale per poi magari cercare di capire come l’uomo, la persona dietro le sbarre possa sopravvivere alla quotidiana privazione della libertà fisica. Proprio questo è quello che mi ha sempre incuriosito (all’inizio inconsciamente) fin dall’età dell’elementari quando passavo davanti all’altissimo muro di cinta del carcere di Fossano per recarmi a scuola, lo costeggiavo fino a svoltare in via S.Giovanni Bosco e proseguivo dritto verso l’entrata principale dove la grande porta di ferro grigia con un piccolo spionciono bloccava l’entrata. In quel tratto osservavo le finestre con spesse sbarre per cercare di individuare un volto o qualche ombra affacciarsi. Allora non avevo ancora ben capito il senso della punizione, della condanna, del reato o del crimine, solo quello dei film, magari di Walt Disney che guardavo al “cinematografo” all’inizio degli anni 70 o il senso delle punizioni giuste dei genitori, quello l’avevo già sperimentato. Sicuramente fu la curiosità e la voglia di vedere oltre quel muro che alla fine degli anni 80 mi spinse a far domanda e arruolarmi nel corpo degli agenti di custodia, allora detti tirafrui. Si insomma in quei tempi si poteva fare l’anno di naia anche così, potevo fare l’alpino o far domanda di arruolarmi per un anno nei carabinieri, nei vigili del fuoco o fare il guardia carcere non che ci avessi pensato seriamente a fare il tirafrui. Così finalmente oltrepasso quel portone grigio all’età di 19 anni un po’ ribelle e con niente voglia di essere guardia. Finisco spesso punito, ma tanto “dentro ero” e un anno doveva passare, guardia o detenuto a volte le due realtà sono veramente simili, ma non dirlo a una guardia e non dirlo a un detenuto… Conosco allora detenuti e guardie in quell’anno presto servizio tra i vari cortili 1°-2°-3°, perquisico chi si sposta da una parte all’altra, apro e chiudo porte con le spesse e pesanti chiavi d’ottone, poi trascorro interminabili notti sul muro di cinta su e giù ghiacciato d’inverno e torrido d’estate mentre l’anno di naia scivola via (lo dico adesso). La vita prosegue fuori e a distanza di tempo mi ritrovo a fare il fotografo sempre meno di matrimoni e comunioni e sempre più appassionato, mi piace raccontare storie di gente attraverso le immagini. La strada che percorro per arrivare al mio studio è sempre quella, costeggio il non più così altissimo muro di cinta e proseguo verso via Roma. E’ stato fin troppo semplice un giorno suonare e chiedere del comandante per spiegarli un mio progetto fotografico di descrivere la vita all’interno della struttura penitenziaria. “Vuagliò cheffai qui? ce voffa’ na foto cun stu cannone?” Spiego così il mio interesse per quella realtà nascosta e che mi sarebbe piaciuto raccontala con le immagini, insomma per farla breve dopo alcune domande in carta bollata al ministerio di giustizia divento “u prufessò de fotografia” e comincio a incontrare le persone ospiti del carcere, è stato fin troppo facile entrare in galera per me. Inizia così il corso di fotogafia per i detenuti della casa di reclusione Santa Caterina di Fossano. Durante le lezioni in aula cerco di spiegare come un fotografo può comunicare e raccontare sensazioni e sentimenti utilizzando le immagini non solo per immortalare il gruppo in vacanza o la ragazza del momento, poi parliamo di cose un po’ più tecniche, corpi macchina, ottiche, pellicole, modi di ripresa e di sviluppo. Fin qui per alcuni mesi le lezioni di teoria si svolgono in una cameretta “aula” e filano lisce, quasi tranquille (insomma). Cerco d’inventarmi insegnante e mi barcameno didatticamente a spiegare le basi per cominciare a fotografare e per far capire l’importanza della comunicazione dell’immagine. Poi finalmente arriva il primo giorno di pratica. Usciamo nel grande cortile centrale, dove la popolazione carceraria passa gran parte del tempo concesso fuori dalle celle (ora d’aria). Il gruppetto eterogeneo è composto da detenuti studenti di varie nazionalità, religioni e provenienze etniche, chi basso e tarchiato, chi alto e smilzo con tatuagi incartaimpecoriti sulle braccia un tempo grosse e muscolose, qualcuno con ciccatrici sul volto come segni tangibili di storie di una vita dura, chi invece elegante un po’ demodé profumato da un orribile dopobarba, ecco il nostro gruppetto, la nostra classe modello. Ci avviamo al centro del cortile, ognuno con la propria macchinetta usa e getta in mano. Mentre comincio a spiegare alcune nozioni della ripresa fotografica, attiriamo immediatamente l’attenzione di tutti i presenti nel cortile, ci guardano increduli e sconcertati come dire “ma che credono di fare questi…cos’altro ci tocca vedere in galera..”.Vado avanti e un po’ intimorito spiego il controluce, la profondità di campo, l’inquadratura e come si tiene la macchina fotografica, poi uno di loro impugnando la usa e getta controbatte facendomi vedere come teneva in mano la beretta nel conflitto a fuoco mentre si dava alla fuga inseguito dai carabinieri…Parlamo di fotografia e non solo. Lo scafista ex militante dell’uck nella guerra dei Balcani mi racconta come venne in possesso di attrezzatura fotografica di qualche povero e sfortunato reporter e non voglio sapere di più…Passa il tempo e molti mi raccontano le loro storie senza che io abbia mai chiesto di raccontarmele vere o meno, non m’importa. Piano piano sento che quello che sta imparando di più sono proprio io “u prufesso”, ascolto e osservo le discussioni della vita fuori e dentro di “delinquenti spesso innocenti” persone dalla vita difficile. Così passano i mesi e divento sempre più parte del paesaggio carcerario, vedo qualcuno uscire per fine pena, altri freschi “pivellini” entrano (ormai ho un po’ di esperienza e confidenza con tutti) altri in fine ritornano dentro dopo un breve periodo di libertà. Nel cortile ormai tutti sanno che stiamo facendo il corso di fotografia e cercano di farsi regalare qualche foto da mandare alla mamma o alla ragazza. Non ho mai ben capito il perché della smania quasi isterica di farsi immortalare dentro tra quei muri e quelle sbarre magari nel piccolo fazzoletto di giardino del secondo cortile o nel cortile centrale tra i compagni di cella. Intuisco l’esigenza di rappresentarsi attraverso la propria immagine stampata e la voglia di affermare di esistere anche in lì dentro, inoltre preziosa l’attesa di ricevere dall’esterno le stampe sviluppate per poi spedirle. Il tempo scorre diverso in galera. Fuori manca sempre il tempo per far tutto, esageratamente abbondante invece dentro deve essere impiegato in modo giusto per garantire la sopravvivenza fino a fine pena. Così chi può diventa lavorante, scopino, muratore, auito in cucina, addetto ai conti correnti detenuti…lavorare è il modo migliore per passare il tempo in galera, un privilegio. In tutto questo movimento di persone e storie riesco a scattare immagini per circa tre anni, veramente mi sembra un buon tempo per riuscire a capire se pur superficialmente questa realtà ed essere credibili nel trasmetterla ad altri. Riguardo in archivio i provini che man mano nel tempo diventano immagini meno stereotipate e riconosco le persone e non i detenuti. Vedo pezzi di vita in sospensione dietro quelle sbarre e quando una sera d’inverno un detenuto cucina il sugo per la pasta che sprigiona aromi familiari la cella sparisce, sento le cipolle soffriggere e il passato di pomodoro che schizza al contatto con l’olio bollente. In qualche modo si cucina anche in cella. Fornellini da campeggio e coltelli di plastica, bicchieri di plastica, scolapasta di plastica, niente bevande alcoliche, niente lavapiatti, niente pentole inox o padelle anti aderanza, niente forno a microonde e forchettoni, niente frigo le pentole sono consumate e annerite, per rendere l’idea è come cucinare in campeggio e ti sei pure dimenticato le cose più importanti e allora ti devi ingeniare. Ruiz cucina le ali di pollo con peperoni, zucchini, cipolle, patate, carote e riso mescolando il tutto nella pentola ammaccata, poi aggiunge pepe e spezie piccanti e sembra subito di essere di nuovo in Perù, Aziz cuoce il pane arabo fino a farlo diventare appena bruciacchiato e caldo, sbriciolando aromi di provenienza africana anche se a me sembra più una piadina Romangnola e poi Ciro napoletano nel corpo e nell’anima impasta sul tavolo, dove fino a due minuti prima giocavano a carte e fumavano, la pasta e in un attimo prepara una pizza dai profumi di incursioni negli stretti vicoli napoletani e ci racconta la ricetta e un’inseguimenti post rapina…la libertà è un’altra cosa certo, ma in questi momenti l’aria trasporta aromi e pensieri che ti portano oltre le sbarre, oltre quei muri, fuori dalla condizione di detenuto anche solo per un attimo. In carcere si cucina e a volte anche bene, il cibo diventa anche resistenza alla privazione della libertà, un altro modo per affermare di esistere, ma questa è un’altra storia che ho documentato con Michele Marziani giornalista scrittore in un libro di ricette e storie di cucine nelle celle.
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- Words by: Davide Dutto
- 25 Aprile 2008
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