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Ieri ho sentito forte il peso della condizione di permanenza dietro quel muro, dietro quelle porte, dietro quelle sbarre mentre parlavo con i trenta ergastolani.

Mi ha profondamente colpito il senso di rassegnazione, adeguamento dell’animo ad una quotidianità dove la cella è diventata casa.

Ciò che noi intendiamo per “casa” è strettamente legato al concetto di famiglia, affetto, sicurezza, rifugio, e a tutti quei valori atavici che vanno al di là di qualsiasi mattone o design.

La vita dietro le sbarre scorre “fuori” dal tempo, lontano dal mondo influenzando perfino il senso di spazio, di luce.

Così bisogna svangare tonnellate di stereotipi dalle immagini del carcere che normalmente ci vengono riproposte. Dobbiamo spogliarci dai nostri pregiudizi, delle nostre paure, dalle nostre false sicurezze, solo così potremmo tornare a rivedere delle persone e non dei detenuti, persone e non secondini.

Ho cercato tra queste immagini pezzetti di casa, surrogati di famiglia, il senso di quotidianità che l’animo umano ricrea ogni volta per poter sopravvivere a qualsiasi condizione.

 

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