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Lasciare dei segni per l’uomo è un certificato di esistenza in vita.

Dalle caverne ai muri di oggi, l’uomo usa le superfici come pagine aperte alla lettura di libri urbani periferici o luoghi casalinghi, per consegnare al passante le proprie dichiarazioni graffiate, scolpite, disegnate o scritte.

Attraverso le varie tecniche prendono forma i pensieri più intimi di quel pezzo di vita quotidiano, di quel periodo più lungo o addirittura del riassunto di una vita.

Fin dalla prima scalfittura direttamente dalla pancia al muro, diventa poesia pura. Così i segni vengono con-segnati al tempo e diventano un atto di fede ad una mortalità ritardata.

Lasciare segni sui muri è quindi l’arte, è la necessità dell’uomo di spiegare la propria condizione, a volte diventa anche una forma di terapia, comunque una dichiarazione.

Gli spazi attuali dove i segni di una protesta, di una dichiarazione d’amore, o di un’appartenenza vengono consegnati al passante, sono solitamente le periferie, le grandi superfici di fabbriche dismesse, i viadotti, le case abbandonate, o addirittura le superfici mobili come quelle dei vagoni ferroviari o della metropolitana.

 

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L’altro luogo comune per eccellenza di tale arte, sono i muri delle celle dei carceri. Spazzi centellinati alla scrittura e al di-segno, ma per questo non meno pregni di significato e d’importanza. Scritte su scritte, su scritte si alternano tra gli strati di vernici spalmate negli anni, come un volume che continua a chiudersi ad ogni stagione di verniciatura. Tutti gli spazi disponibili vengono scritti, anche i più nascosti purché si possa dire qualcosa ed impegnare il tempo. In quei segni si  sente subito una grande energia determinata dalla condizione di sofferenza, dalla privazione di libertà, sono messaggi lasciati negli anfratti tra lavandini e gabinetti alla turca, o accanto alla branda, quelle superfici diventano quindi spazi privilegiati e gratuiti da riempire. Da quei segni fuoriesce  la rabbia, la vendetta, l’amore, i calcoli matematici di giorni infiniti, lo sconforto, la sensazione di perdita, l’abbandono; come l’acqua di un fiume in piena i graffiti delle celle impattano direttamente sui quei muri che recludono e contengono dentro. Spesso i detenuti usando le sole unghie per scalfire parole che difficilmente saranno ascoltate.

 

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Erano gli anni 2002-2003 quando nel Carcere di Saluzzo, allora abbandonato in attesa di restauro, entrai per realizzare una serie di immagini. Andai alla ricerca dei segni rivelatrici dei passaggi di vite recluse. Per la mia ricerca non fu un percorso semplice, ma rivelatore del senso di privazione di libertà fisica dell’uomo. Passai dentro i silenzi di quei lunghi corridoi, dentro le grandi celle spalancate, nella penombra e nel buio di quei locali e percepii ancora forte un senso di permanenza. Quei segni continuavano ancora riflettere vite e messaggi.  Oltre che portare a compimento la mia ricerca, stampare quelle foto fu come prolungare nel tempo le parole, i disegni, e i messaggi di quelle persone.

 

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Sono le immagini di particolari, ma anche di spazi più ampi quelle prodotte. Sempre alla scoperta di significati, vagabondai in quel luogo come all’interno di una bottiglia che contiene il messaggio. Vennero fuori un centinaio di foto in bianco nero e a colori, ancora oggi molto attuali.

Infine rieccomi nel ex carcere di Saluzzo, ora adibito a Museo, luogo di esposizione d’arte e incontri culturali. Devo censire e fotografare le tracce rimaste nelle celle più vecchie di sotterranei della Castiglia. Una ricerca quasi scientifica, centimetro dopo centimetro, per scoprire date e storie anche di duecento anni addietro. Questa volta sono quasi tutti fotografie macro, come dalla lente di Sherlock Holmes l’obiettivo scruta i passaggi di colpevoli definiti. I tratti ormai sono quasi as-tratti, tra le ricorrenti croste di vernice secca e muffe, a volte le parole e i disegni sono monocromatici e a volte scavati. Riesco ancora a fare piccole scoperte emozionanti quando soffiando via instabili pellicine di tempo vedo apparire lettere, parole che tornano inevitabilmente a dire qualcosa.

 

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“Inferno li 14-6-84

Caro amico non ti abbattere

tu ora stai provando quello

che tanti hanno provato

neanche gli animali cadono

… questa è follia

… e siamo parte

… torna da sola

…vera.”

 

“Johanna

I love you

forever”

 

“Claudio e Dominle

arrestati a Moretta

il 29/7/(77) x furto aggravato

conflitto a fuoco…”

 

“Giustiziati ingiustamente

vendetta sia fatta”

 

“Ornella per te sono in carcere”

 

“Si lotta alla sopravivenza”

 

“VITA””

 

Alla fine mi allontano e vedo quei muri pieni di scritte come un unico quadro, opera d’arte forzata, un’unica voce di tutti i passaggi dentro. Esco, il mio lavoro è finito. Devo solo più spegnere la luce dei sotterranei, l’attrezzatura è in spalle mentre salgo le scale. Ancora esito prima di chiudere la porta, mi sembra quasi sentire quelle frasi diventare voci nel silenzioso eco smorzato dal click. Buio.

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Napoli una mattina di primavera, avevo 16 anni e stava per finire la scuola. Un mio amico ed io decidemmo di andare a vedere la partita di pallone. Quando entrammo allo stadio, io per la prima volta rimasi incantato alla vista di così tanta gente in un unico luogo. Ero lì in mezzo a tutta questa folla, urla e tifo, provai una grande emozione.