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Stampatingalera è il nostro laboratorio di stampa fine art dietro le sbarre dell’alta sicurezza a Saluzzo.

Mille volte rifarei gli stessi errori, mille volte le stesse azioni se il risultato fosse sempre quello dell’altro giorno nella sezione di alta sicurezza  del carcere di Saluzzo.

Sono molti i muri, le barriere, i cancelli e i chiavistelli che stanno davanti alla denominazione di “alta sicurezza”. Essa esplicita un’attenzione particolare, anima una sensazione di controllo e di pericolosità particolare, innalza un muro in più, quello psicologico, da frapporre tra noi e chi sta tra dietro quel cemento “armato”.

Ma è davvero così pericoloso?

Certo è pericoloso, ci sono persone che hanno commesso reati importanti, ma né più e né meno come fuori nel mondo libero, dove forse ci sono ancora più pericoli proprio in quei luoghi famigliari dove si annida una “falsa sicurezza”.

Il laboratorio di Stampatingalera è attivo da ormai due anni e l’unica cosa di alto che ho trovato è il livello di coinvolgimento e di forza di propulsione verso il riscatto e la voglia di rimettersi in gioco al più presto. Troppo è il tempo sprecato nelle celle, dove il senso di abbandono nel nulla riempie la giornata. Troppo potere viene lasciato in mano alla spersonalizzazione dell’anima senza un diritto alla ricostruzione, senza una via verso il futuro, così rimane solo il passato, vivo e logorante in questo stato di pausa dalla vita. Anche rifugiarsi nella lettura e nella scrittura, dopo troppo tempo viene meno.

Qualcuno non uscirà più, ma non ci crede ancora fino in fondo e pure io non ci posso credere.

Spesso la società pensa sia una giustizia quella che vede la gente in prigione, pensiamo sia il luogo giusto per certe persone, o almeno lo pensano in molti. La mia direzione è quella di una ricerca, ricerca di un’impossibile giustizia, ma non confondiamo questo operato con una forma di pietismo gratuito verso persone che pensiamo colte da improvvisa ingiustizia. Credo fortemente nel dovere – e nel diritto – di pagare per le colpe commesse, per poi rientrare in un sistema di legalità. Credo che per ogni errore commesso sia necessario pagare e che in un modo o nell’altro pagheremo sempre, ma non dobbiamo certamente regalare vite allo spreco e alla costruzione di castelli di rabbia conseguenti solo a prossime e inesorabili illegalità.

Già, questa è la colpa della nostra società dichiarata anche dall’Unione Europea: si parla di tortura, e di conseguenza ora stiamo già pagando un caro prezzo, altro spreco e ingiustizia da aggiungere al attuale sistema di detenzione.

Ci sono certamente carceri che vanno in una giusta direzione, luoghi di lavoro e di occupazione manuale ed intellettuale, ma certamente non basta ancora per esserne orgogliosi.

Comunque, a dir la verità, non vedo una soluzione nell’immediato, così ho smesso di pensarci troppo, preferisco essere concreto a piccolissimi passi, cerco di vedere solo persone e basta, né detenuti, né agenti, né direttori, educatori, volontari, ma solo persone, senza giudicare, senza curiosità morbosa di sapere quello che li ha portati tutti in alta sicurezza. Dobbiamo contaminare con pensieri concreti ogni persona che incontriamo dentro. Il lavoro mi sembra la possibilità più importante di rinascita, non solo dentro. Così il nostro laboratorio di stampa in galera vuole seguire questa direzione.

Ieri quando sono uscito con in mano il rotolo di fotografie stampate su carta pregiata 50×70 dal gruppo di Stampatingalera, la commozione è stata forte. Dentro ho cercato di celebrare un po’ il momento, ma non so se sia davvero passata questa mia emozione: certamente è stato forte il senso di sana materialità quando le immagini stampate hanno oltrepassato l’ultimo cancello, spero verso una nuova visione di detenzione.

 

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Lunedì, anzi martedì di un giorno di aprile. Sono nella sala bar della nave Superba, ore 9:15 anzi 9:16 direzione Palermo.

Seduto a un tavolo della caffetteria al nono piano di questa nave cerco di svegliarmi. Inesorabilmente c’è sempre qualche televisione accesa che trasmette ignobili trasmissioni mattutine, adesso canale 5 mi pare, ma una vale l’altra, spazzatura da fuori bordo. La gente sta seduta ai tavoli più o meno rumorosa e inizia la giornata dopo un alba indecisa sul fazzoletto di mare che costeggia la Sardegna, non si vede, ma sta sulla nostra destra.

Cazzo siamo in mezzo al mediterraneo e nessuno sembra accorgersene almeno qui dentro, trasciniamo dietro la nostra piccola vita in un sacchetto di plastica, chiusa dentro acriliche certezze, fuori potrebbe esserci un universo blu cristallino, ma preferiamo una televisione accesa, una cabina con aria sintetica e acqua non potabile piuttosto che fare un tuffo in quel mare, respirare e colorarci di mare.

Spesso quando viaggio in nave mi piace stare al limite della poppa e osservare il ribollire dell’acqua smossa dalle eliche, guardare l’ipnotica scia che dalla nave prospetta fino all’orizzonte; la fisso per alcuni minuti, l’effetto è assicurato. Così vedo un tuffo in quel ribollire di mare, vedo scorrere il pensiero sulle correnti, immagino di essere sul dorso e vedere la nave allontanarsi piano, poi solo più il rumore delle onde mentre la nave è ormai un puntino all’orizzonte, merda non fosse così pericoloso e bagnato lo farei veramente.

Invece per ora, aggredito da una caffetteria, decido di incuffiarmi nelle note dei The Chemical Brothers, Push the Button, Galvanize, musica elettronica di qualche tempo fa, può andar bene. Così scrivo, anzi penso e scrivo, anzi non riesco a pensare e non sento cosa scrivo, però mi viene bene battere i tasti a ritmo…

Ritmo e parole si fondono insieme senza seguire una traccia precisa, infatti scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, forse più facilmente descrivo il mio umore ora sul tavolo.

Dentro il bicchiere di polistirolo staziona il mio cappuccino con schiuma last-limone però dal gusto caffè latte per fortuna,  il tavolo è ancorato al pavimento e la sua plancia in formica consumata è di color beige impallidito, la mezza brioche morsicata al cioccolato l’ho appoggiata sul tovagliolo di carta, il cucchiaino è rigorosamente di plastica. Tutto qui attorno è decisamente beige, come pure lo è anche il personale scazzato-napoletate dietro il bancone, li posso capire. Se giro lo sguardo alla mia destra, scostando appena le tende arancioni, rigorosamente slavate e beige, si vede un pezzo di piscina vuota e gente che si sospinge verso un sole ventilato che scompiglia i capelli per chi ne ha. Per di più sono pensionati, mentre i camionisti ancora dormono in cabina.

Ecco, mi sa che tutto questo alla fine mi piace, insomma mi smuove dentro curiosità e allontanamento nello stesso tempo, immaginare le storie e sentire i profumi delle persone in viaggio, ascoltare pezzi di discorsi in lingua sicula che s’incrociano con altri in tedesco o l’inglese mi attrae, così resisto ancora un po’ nella caffetteria e alterno musica a parole di passaggio davanti e dietro al mio tavolino, giusto per finire la colazione. Inevitabilmente ora però devo uscire per andare a vedere la scia della nave e tutto il resto.

Ora sono al sole, mentre i The Chemical Brothers continuano il loro album.

Sono partito, ho mollato gli ormeggi, a dire il vero li ho strappati ieri lasciandomi alle spalle Fossano, guidando fino dentro alla pancia della nave quasi in apnea, prima di spegnere ogni contatto, prima di perdere ogni linea che questo viaggio in nave mi impone di perdere.

Qui non c’è campo, qui c’è mare.

Dunque direzione Sicilia, che ormai tra poche sarà visibile, e già penso al libro che ne verrà fuori da questo giro, le foto da fare, le persone da incontrare, sto cambiando il ritmo, sto lentamente tornando in superficie con e un sub che affronta la decompressione.

Quindi giorni rimarrò, per raccontare attraverso le mie foto le storie di Pino Cuttaia, le sue ricette di vita, i suoi profumi, la sua materia, il suo lavoro, le sue passioni, i suoi amori, la sua famiglia.

Giunti, l’editore, si aspetta un gran bel lavoro e io finalmente torno a fare solamente il fotografo.

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