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Poco prima di entrare in galera, ma a dir la verità già da alcuni giorni, ero preoccupato.

Oggi poco prima di entrare nel carcere di Torino, padiglione femminile, ho una forte sensazione di disagio, mi sento davvero spaesato e fuori posto. I pensieri rimbalzano tra le parole di circostanza ripetute e studiate nella mia testa, mentre vedo le mie convinzioni laggiù accovacciate in un angolo. Intanto mentre mi sento perso in questi pensieri abbiamo già superato l’ennesimo cancello di ferro e le nostre facce incrociano altre facce, sono quelle di donne e a ben vedere sono molto più perse della mia. Già, devo dirmelo almeno un paio di volte: sono io quello privilegiato, quello che entra dietro queste sbarre e poi massimo un paio d’ore esce. Non so cosa mi frulla “dentro”, oggi faccio fatica a relazionarmi, ho paura di non riuscire a spiegare bene il progetto, così in questa stretta aula a stretto contatto con una quindicina di detenute tiro fuori i miei dodici anni d’incontri e di esperienza nelle carceri e mi faccio forza. I pensieri d’istinto fuoriescono sotto forma di un monologo che dura circa 30-40 minuti. Mi sento come di fronte alla macchina dei raggi x, “non respirare, fermo…”… Poi la prima domanda scioglie la tensione, e sorrido perché è una domanda critica su una mia foto pubblicate nel libro “Il gambero nero”. La detenuta di origine russa mi chiede con tono leggero, ma deciso: “Si possono fare delle foto come questa, con la testa tagliata fino alla fronte?” Immediatamente fuoriesce dalle mie labbra piegate all’insù ogni dubbio, ogni insicurezza, ogni tensione e spiego la mia teoria sul taglio di un’immagine, dopodiché non è più un monologo, ora ci stiamo parlando. Ovviamente nascondo la mia commozione… o forse no, alla fine di quelle due ore passate in quell’aula ristretta, sento che siamo sempre e solo delle persone che s’incontrano, che hanno cose da dirsi, specialmente quando l’eco dei passi in quei lunghi corridoi restituisce il sapore di vite difficili che arrivano dall’africa più nera, dall’est dell’europa, ma anche solo da Torino.

Inizia così nel carcere di Torino il progetto “Face to face” al femminile, un’atra strada che seguo attraverso le immagini. Immagini certamente, ma ancor prima persone, storie di lotte e di sopravvivenza, vite estreme.

 

“Perché pensiamo che una persona sia un delinquente?

Come si distingue, se si può distinguere, chi commette reati da chi non lo fa?

Basta il fatto di essere rinchiusi in un carcere per dividere in modo netto chi commette reati da chi non li commette?

Cosa influisce nel farci vedere quello che vediamo? Quali concetti o preconcetti usiamo?

Come possiamo vedere “veramente” chi ci sta di fronte?”

Tratto dal progetto face to face

Il progetto face to face ideato da Sapori Reclusi verrà realizzato in collaborazione con il museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso”

 

 

 

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Ogni volta che finisce una giornata faticosa, ogni volta che esco di galera, che finisco un servizio difficile, o che qualcosa non va, ogni volta la direzione mi porta lì. Davanti a quelle montagne, a quel paesaggio, in quello spazio che mi aspetta tra Fossano e San Lorenzo. Da quella collina che finisce lunga e scende verso la piana posso vedere bene la luce del tramonto che taglia una diagonale affilata. Respiro lungo e profondo l’ossigeno pulito come quello di questa sera che il vento ha portato alzando la neve fresca, quasi ne sento l’odore o comunque lo immagino: roccia e neve. Lo stesso vento che questa mattina ha portato via le nuvole le ha poi riappoggiate questa sera nascondendo il Monviso. Aspetto e respiro e aspetto ancora seguendo la luce con lo sguardo mentre declina dal giallo al blu, cerco la prospettiva giusta che solo verso quell’ora di sera posso vedere, posso sentire. “Niente da fare” penso, devo pisciare, forse è per la ventata fredda arrivata dopo l’ultimo colpo di luce; piscio. Poi risalgo in macchina, sbatto la porta, sfrego le mani fredde sul volante, giro la chiave e rientro verso casa quasi felice.

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