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Il torrente in quel punto della valle passa in mezzo un bosco.

Il bosco è ancora nudo di foglie e di colore.

Tutto attorno la luce rimbalza e impatta trapassando le pupille con forti e lucenti contrasti.  La neve, i riverberi d’acqua, i tronchi neri e l’inesistenza di mezzi toni formano un paesaggio tremendamente bello.

Gli alti fusti degli alberi si protendono in alto come le colonne gotiche di una cattedrale  per sorregge  l’unico tentativo di colore.

Il sole schiva a tratti  il vento pungente.

Ombra e luce, luce e ombra, fanno eco infinito scivolando a valle con la corrente. Rumore e luce suonano all’unisono.

Attratto dalla promessa di essere assorbito da questi spazi surreali scendo a  balzi decisi verso il corso d’acqua senza seguire il sentiero. Affondo gli scarponi nella neve e provoco piccole piacevoli scivolate. Mi muovo agile tra rocce, acqua e dirupi.

L’abbigliamento non è il più tecnico o adatto per l’occasione, ma sta nell’umore vario di oggi essere inadatto, quindi va bene. La sciarpa al collo mi da un tocco aristocratico, mentre l’ampia felpa grigia indossata sopra il maglione blu fa intuire una patologia psicofashion non troppo grave, eccentrica al punto giusto per credere che l’arrangiamento sia voluto, le mie scarpe da tempo lasciano intuire qualcosa di scombinato che forse funziona. Annodato al fianco dei jeans uno straccio da cucina e il sacchetto di plastica giallo.

Questa mattina dopo il cambio dell’ora, l’ennesima domenica di lavoro dei muratori davanti alla mia finestra e il malintesa quotidiano, ho deciso di andare a pescare in Valle Pesio.

 

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Si è inaugurata questa mattina in maniera del tutto inattesa la non mostra fotografica quattro immagini e una chiave in riva ad un fiume.

Questa mattina, dopo l’ennesima mail spedita, non ho resistito al richiamo del sole e della corrente tiepida che filtra dalla finestra socchiusa della sala. Le tende danzando fanno filtrare i raggi del sole a intermittenza direttamente sul monitor del mio mac, mi fanno capire lasciar perdere la tastiera, di smettere almeno per un po’ quello che sto facendo.

Al richiamo non oppongo la ben che minima resistenza, così piego in due il mio portatile e alzo le chiappe dalla comoda poltrona, infilo le scarpe e mi trovo in macchina direzione fiume Stura.

La mia macchina, è ormai il mio secondo studio, “ambulante”, ha sul retro, oltre un corpo macchina, alcune cartelline, un paio di libri, maglie a scarpe varie, anche le quattro immagini montate su forex che ieri ho esposto all’ultimo incontro sosial-culturale…

Guido veloce, ma non troppo.

Arrivo al bordo del fiume in un non nulla, sono posti che conosco bene, alcuni li conosco solo io.

Sento subito forte le mie cellule dilatarsi, saltellare e correre al bordo della pelle dove la luce filtra più forte e calda. Chiudo gli occhi e ancora c’è luce, rossa e tiepida. Li riapro e a chiudersi al massimo ora sono le pupille. All’orecchio lo scroscio del fiume diventa musica, ritmata e rotonda nei gorghi, più acuta sulle rocce schiaffeggiate, più lenta dopo le rapide, più indecisa nelle onde sulla sabbia, su e giù, su o giù? Dal naso entrano odori di muschio, roccia e rami secchi, di cespugli spogli ancora per poco.

Tutto ha una profondità di campo che ti apre l’anima; il paesaggio sta li davanti a me come un enorme apriscatole.

Dopo essermi incantato per alcuni minuti, mi ricordo delle mie quattro immagini nel baule e subito organizzo la prima mostra fotografica istantanea, visibile solo per qualche mezz’ora, il tempo di farla passeggiare, sentire l’acqua, il vento, la luce di oggi.

Me la godo, seduto sulla sabbia, sulle rocce, appoggiato ai tronchi. Metto anche i piedi in acqua…gelata. Mi piace vedere le immagini appoggiate ai tronchi, stese sulle pietre, in bilico tra acqua e sabbia. Le guardo da più prospettive e me la gusto. Insomma mi rilasso e assaporo questo anticipo di primavera.

Poi la mostra giunge al termine e qualcosa mi rivomita alla dura realtà… ho perso le chiavi della macchina. Minchia, lo sapevo, troppo bello per essere bello fino in fondo. Allora passo le prossime due ore senza trovarle, ribalto la macchina, seguo i miei passi, sposto pietre, annaspo nella sabbia, cerco tra le foglie secche… Niente, niente…niente.

Poi per un puro miracolo trovo nel cassetto degli attrezzi la chiave di riserva che mai immaginavo di possedere.

Torno così a casa lasciando l’altra chiave in chissà quale anfratto, tra quale cespuglio, appoggiata su quale roccia. Lei è là, si gode ancora il paesaggio, mentre io sono ormai rientrato nella quotidianità del fare, fare, fare rifare le chiavi della macchina.

 

 

 

 

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