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Sette e trenta del mattino,

 

già da un’ora abbondante i miei occhi osservano gli alti muri, la porta e la poltrona di questa stanza, i pensieri si sovrappongono creando immagini diverse. La stanza è a Licata vecchia, “il quartiere”, zona bellissima, fuori dal tempo. La casa dove sono ospite è dell’agenzia YES comunicazione, una sede polivalente, luogo di permanenza per artisti, utilizzata anche per incontri culturali, meglio dire feste, riunioni, meglio chiamarli aperitivi, mostre.

Licata vecchia è bellissima e sgarrupata, catalogo di serramenti che vanno dall’alluminio anodizzato al legno più antico, porte in ferro colorate di celeste, della stessa latta di celeste che viene anche utilizzata dai pescatori per proteggere e dipingere le barche, colore resistente alla salsedine e all’acqua di mare, agli scogli, si confonde con il blu del mare.

Nella piazza un’esposizione di vasche per contenere l’acqua staziona in modo apparentemente precario sulla cima di ogni casa, una piazza e una chiesetta, panni stesi, poche macchine che riescono ad arrivare fin qui, passando da due impossibili curve strette ad angolo retto, chiuse tra case costruite una sull’altra, man mano che la famiglia si allarga.

Paesaggio urbano, come catalogo di mode ed usi antichi, si apre a me uscendo di casa dal portone, rigorosamente di ferro pesante, una finta persiana di protezione, ma ancora non so bene di quale tesoro.

Sgarrupati anche i misteriosi vicini descritti da Francesco come personaggi di sicuro interesse umano e fotografico, ad esempio il signore dalla lunga barba bianca che pur avendo la casa qui, spesso scende a dormire fuori della stazione. Poi la storia dell’anguilla che vive nel serbatoio dell’acqua, tenuta quasi fosse un tesoro dalla famiglia davanti a noi, come s’intuisce dalle urla e dalle discussioni relative alle fasi di mantenimento della poverina, che verrà poi mangiata, e mille altre storie ancora da scoprire dietro ogni crepa di questo paese.

Io di certo non mi sento fuori posto qui.

Sette e trentacinque del mattino dicevo, scorro veloce le foto di ieri, apro i files della Sicilia fatti negli ultimi anni. Inizio a selezionare le immagini che dovrò usare per il libro. Bevo caffelatte, mentre dal portatile escono le note del concerto in qualche nota maggiore di Bach, archi e violoncelli comunque li riconosco, echeggiano sui muri alti spessi, a seguire l’Orchestre du Collegium vocale Aria: mir ekelt mehr zu leben…

Ma ora mi concentro, apro le cartelline, penso alle cose che Pino mi racconta, leggo alcune note sul libro, rivedo le persone incontrate, sensazioni, e ancora la musica che entra dalle orecchie ed esce dagli occhi, forma pensieri.

La musica e i colori abbassano l’ansia da prestazione di questi giorni, mi serve per vedere meglio tutto.

Ora razionalizzo in cartelline denominate, ritratti, paesaggi, frutta, pesci, people, Sicilia meridiano, orientale, ecc. Insomma oggi alle sette e quarantasette inizio la parte di prescelta, anticipando i tempi, sentendo i profumi delle immagini ancora qui intorno, dentro questi fotogrammi, su cui ritornerò una volta nel mio studio a Fossano.

Questa mattina allora sento forte la delicatezza del paesaggio Siciliano e la mia, insieme chiedono di aiutarsi a vicenda in questa Licata delicata.

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Lunedì, anzi martedì di un giorno di aprile. Sono nella sala bar della nave Superba, ore 9:15 anzi 9:16 direzione Palermo.

Seduto a un tavolo della caffetteria al nono piano di questa nave cerco di svegliarmi. Inesorabilmente c’è sempre qualche televisione accesa che trasmette ignobili trasmissioni mattutine, adesso canale 5 mi pare, ma una vale l’altra, spazzatura da fuori bordo. La gente sta seduta ai tavoli più o meno rumorosa e inizia la giornata dopo un alba indecisa sul fazzoletto di mare che costeggia la Sardegna, non si vede, ma sta sulla nostra destra.

Cazzo siamo in mezzo al mediterraneo e nessuno sembra accorgersene almeno qui dentro, trasciniamo dietro la nostra piccola vita in un sacchetto di plastica, chiusa dentro acriliche certezze, fuori potrebbe esserci un universo blu cristallino, ma preferiamo una televisione accesa, una cabina con aria sintetica e acqua non potabile piuttosto che fare un tuffo in quel mare, respirare e colorarci di mare.

Spesso quando viaggio in nave mi piace stare al limite della poppa e osservare il ribollire dell’acqua smossa dalle eliche, guardare l’ipnotica scia che dalla nave prospetta fino all’orizzonte; la fisso per alcuni minuti, l’effetto è assicurato. Così vedo un tuffo in quel ribollire di mare, vedo scorrere il pensiero sulle correnti, immagino di essere sul dorso e vedere la nave allontanarsi piano, poi solo più il rumore delle onde mentre la nave è ormai un puntino all’orizzonte, merda non fosse così pericoloso e bagnato lo farei veramente.

Invece per ora, aggredito da una caffetteria, decido di incuffiarmi nelle note dei The Chemical Brothers, Push the Button, Galvanize, musica elettronica di qualche tempo fa, può andar bene. Così scrivo, anzi penso e scrivo, anzi non riesco a pensare e non sento cosa scrivo, però mi viene bene battere i tasti a ritmo…

Ritmo e parole si fondono insieme senza seguire una traccia precisa, infatti scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, forse più facilmente descrivo il mio umore ora sul tavolo.

Dentro il bicchiere di polistirolo staziona il mio cappuccino con schiuma last-limone però dal gusto caffè latte per fortuna,  il tavolo è ancorato al pavimento e la sua plancia in formica consumata è di color beige impallidito, la mezza brioche morsicata al cioccolato l’ho appoggiata sul tovagliolo di carta, il cucchiaino è rigorosamente di plastica. Tutto qui attorno è decisamente beige, come pure lo è anche il personale scazzato-napoletate dietro il bancone, li posso capire. Se giro lo sguardo alla mia destra, scostando appena le tende arancioni, rigorosamente slavate e beige, si vede un pezzo di piscina vuota e gente che si sospinge verso un sole ventilato che scompiglia i capelli per chi ne ha. Per di più sono pensionati, mentre i camionisti ancora dormono in cabina.

Ecco, mi sa che tutto questo alla fine mi piace, insomma mi smuove dentro curiosità e allontanamento nello stesso tempo, immaginare le storie e sentire i profumi delle persone in viaggio, ascoltare pezzi di discorsi in lingua sicula che s’incrociano con altri in tedesco o l’inglese mi attrae, così resisto ancora un po’ nella caffetteria e alterno musica a parole di passaggio davanti e dietro al mio tavolino, giusto per finire la colazione. Inevitabilmente ora però devo uscire per andare a vedere la scia della nave e tutto il resto.

Ora sono al sole, mentre i The Chemical Brothers continuano il loro album.

Sono partito, ho mollato gli ormeggi, a dire il vero li ho strappati ieri lasciandomi alle spalle Fossano, guidando fino dentro alla pancia della nave quasi in apnea, prima di spegnere ogni contatto, prima di perdere ogni linea che questo viaggio in nave mi impone di perdere.

Qui non c’è campo, qui c’è mare.

Dunque direzione Sicilia, che ormai tra poche sarà visibile, e già penso al libro che ne verrà fuori da questo giro, le foto da fare, le persone da incontrare, sto cambiando il ritmo, sto lentamente tornando in superficie con e un sub che affronta la decompressione.

Quindi giorni rimarrò, per raccontare attraverso le mie foto le storie di Pino Cuttaia, le sue ricette di vita, i suoi profumi, la sua materia, il suo lavoro, le sue passioni, i suoi amori, la sua famiglia.

Giunti, l’editore, si aspetta un gran bel lavoro e io finalmente torno a fare solamente il fotografo.

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